“Se un giorno le api dovessero scomparire, all’uomo resterebbero soltanto quattro anni di vita” Albert Einstein
Come ci piace il miele quando fuori fa freddo e la gola inizia a pizzicare… Ma lo sapete che siamo proprio noi la principale causa di distruzione di migliaia di alveari? Sì, proprio così, perché l’uomo introduce da troppi anni in agricoltura sostanze più vicine alla chimica che alla natura e che permangono lì dove le api si poggiano, risultando dannose per le stesse. I danni di questi insetticidi, diserbanti e pesticidi, si sommano a una serie di malattie e parassiti quali la varroa, la peste americana o la vespa velutina. E noi, d’altro canto, continuiamo troppo spesso ad associare le api solo al prodotto finale, a ciò che noi possiamo consumare: miele, propoli o pappa reale, ignorando l’importanza dell’impollinazione per circa l’80% dei fiori. Infatti le api si ricoprono di polline e lo trasportano dall’apparato riproduttivo maschile di una pianta a quello femminile della stessa specie.
Capirete bene che sostituire questo tipo di processo naturale con uno artificiale, non solo costerebbe più di 260 miliardi di euro l’anno, ma soprattutto garantirebbe una profonda perdita di senso: il senso che le api sono esseri sociali, strettamente legati alla nostra esistenza, come già aveva più che ben intuito Einstein. Si tratta di un legame antico quello tra noi e loro, in origine dovuto al grande utilizzo della cera per cosmetici e medicinali, poi attestato da alcuni affreschi nelle piramidi egizie e, infine, confermato da numerose ricerche approfondite dall’Università di Bristol.
Per questo prima di decantare il valore della biodiversità, sarebbe bene nutrire davvero una profonda consapevolezza di chi ne è responsabile. Questa è la direzione seguita da molti produttori quali Andrea Paternoster di Mieli Thun in Trentino, Clesia in Toscana, o dagli apicoltori Francesco Cavalieri e Giovanni Cavallo in Cilento. Anche nell’isola di Favignana, nella mente di molti legata solo alla pesca del tonno, la produzione di miele costituisce una delle principali attività locali. Da quanto detto, si deduce che chi produce miele deve nutrire una profonda passione sia per ciò che fa sia, in un senso più generale, nei confronti della vita. Infatti, se a noi un’arnia potrebbe spaventare o apparire un ronzio disordinato, chi se ne occupa ci insegna che in ogni arnia c’è uno sciame che può toccare i 60 mila abitanti, tutte donne, ordinate ed organizzate secondo una precisa gerarchia. Chi comanda è l’ape regina, che non si distingue per la corona ma per la forma più grande e allungata, dovuta al continuo nutrimento con pappa reale fin dallo stadio di larva. Destinata a deporre dalle 1500 alle 3000 uova, può vivere al massimo cinque anni, periodo di vita nel quale è sempre circondata di api che la nutrono (solo con pappa reale). E con la primavera si apre il sipario su uno spettacolo preciso e meticoloso: mentre le api più giovani, battendo le ali, si dedicano alla pulizia delle celle, le bottinatrici (api operaie adulte), raccolgono nettare e polline – il loro bottino – dai fiori più vicini. Di ritorno all’alveare la api bottinatrici hanno il compito di segnalare alle compagne dove si trovano i fiori più rigogliosi e lo fanno con una vera e propria danza, un ballo tarantolato che diventa il loro linguaggio. La vita delle api è una poesia, una sinfonia di movimenti così armonizzati che sembrano suonare, come quegli spettacoli teatrali o quelle opere grandiose che richiedono anni e anni di preparazione. Eppure per loro, per questi piccoli e affascinanti insetti, è “solo” natura. Natura che solo la pazienza e la sensibilità di chi ha ancora l’onore di conoscerle, può cogliere, recitare e inevitabilmente amare.
Ah, ricordate anche la chef pugliese stellata Cristina Bowerman che tra Identità Golose e Expo ci ha incantati con i suoi racconti sul miele come ingrediente principale della sua cucina?































